Quattro domande a Paola Bernascone


Paola Bernascone è la presidente dell’Università Popolare di Vercelli che con la collaborazione iniziale del Kiwanis Club di Vercelli ha cambiato volto a questa istituzione, diventata un riferimento per la città e per il suo territorio. Sotto la sua guida in questi anni è come se si fosse assistito ad un fuoco d’artificio coloratissimo di iniziative, del tutto coerenti con lo spirito fondativo dell’Università Popolare, elaborato a metà Ottocento e rivolto alle persone che quotidianamente faticano con il lavoro. Ultimamente ha inventato i “Bignamini dell’informazione e dell’apprendimento” come oggi, nell’era dell’informatica, dovrebbe essere il primo approccio al sapere: pillole che con rapidità introducono agli indispensabili approfondimenti.

Ma la “prof” Paola per anni ha insegnato filosofia alle “maestrine” della “Rosa Stampa”, altro antico patrimonio della città. Cartesio e Kant e tutti gli altri protagonisti della storia della filosofia che, con la riforma ultima dell’istruzione superiore hanno trasformato le “maestrine” in liceali, o pedagogiche o linguistiche. Nelle quattro domande all’ospite che il 12 febbraio si diffonderà sul rapporto stretto fra il Carnevale, il cibo e il sano godimento per vivere bene ogni giorno che il buon Dio ci manda in terra, la filosofia della “prof”Paola non è stata accantonata, bensì ha dato risposte a trecentosessanta gradi come, fin dai primordi, parlavano quanti avevano una visione completa dell’esistenza.
D’altra parte, Paola Bernascone è figlia d’arte. La sua famiglia, venuta dal Monferrato, patria del buon cibo e del buon vino, gestiva l’albergo Croce di  Malta, storico ostello della vecchia Vercelli, adesso diventato sede di un istituto di credito. E prima fra gli studi al liceo classico cittadino quindi all’Università di Torino, la dottoressa Paola Bernascone ha trascorse molte ore un cucina, accanto alla sua nonna Adelaide magistrale cuoca e a suo nonno che di vino s’intendeva molto.

Questa doppia cultura della filosofia e dell’alimentazione in ogni sua declinazione ha portato Paola Bernascone a due altri risultati, oltre naturalmente quello rappresentato dall’Università popolare sotto gli occhi di tutti: il proprio contributo alla delegazione vercellese dell’Accademia della cucina e un libro di prossima pubblicazione, scritto a quattro mani con la collega Elisabetta Dellavalle, che tratta di storia dell’alimentazione e delle sue ricette dal Medioevo ad oggi

Senza cultura non ci possono essere cucina armoniosa e ricette della tradizione che si tramandano nel tempo sul territorio. Lo sostengono gli storici dell’alimentazione. Ma è sempre vero?
La storia del cibo per me, docente di Filosofia, è affascinante come quella del pensiero: ricca di scoperte, di imprese anonime, di riti collettivi e va di pari passo con l’evoluzione dell’uomo. Ogni popolo, in ogni regione del nostro pianeta ha elaborato la propria tradizione culinaria strettamente legata al suo ambiente e alla sua cultura. Tuttavia non bisogna impugnare questa tradizione come una bandiera identitaria, omettendo il fatto che la tradizione è raramente pura, incontaminata senza connessioni con il resto del mondo. Un semplice esempio: il piatto italiano più tipico, gli spaghetti al pomodoro sono l’unione di pasta (che ha origine in Cina) e pomodoro (portato dall’America latina). Che cosa c’è di tipicamente italiano in questo piatto? Da sempre il cibo è “meticciato”. Il fenomeno delle migrazioni porterà inevitabilmente ad incorporare in quella che noi rivendichiamo come cultura alimentare italiana nuovi sapori, nuovi piatti “tipici “.

Carnevale è la ricorrenza dell’anno con meno freni sulla tavola e con il trionfo dei cibi grassi, nemici del colesterolo cattivo. Nell’antichità, il sostantivo carnevale significava carnem levare, tanto che a carnevale davanti alle cattedrali europee si facevano rappresentazioni senza freno, con cibi inconsueti nel resto dell’anno. Dal Medioevo ad oggi che cosa è mutato nelle nostre zone e quale gastronomia è sopravissuta?
Il Medioevo è un’epoca che, per convenzione, si estende dal 476 al 1492. Non è semplice abbracciare storia e tradizioni gastronomiche di un arco di tempo così ampio. Durante questo periodo la cucina e l’alimentazione subirono molti cambiamenti. C’era una grande differenza tra gli alimenti che consumavano i nobili e i ricchi e quelli che caratterizzavano le mense dei contadini. Nelle nostre zone sono sopravvissuti i cibi delle campagne. Fu il periodo d’oro del maiale. Il consumo della sua carne fu preponderante rispetto a quella bovina, anche perché quest’ultima non si prestava bene alla salatura e non poteva essere conservata a lungo. Le frattaglie erano il piatto principale dei poveri: orecchi, occhi, zampe, testina, interiora, sangue, trippa, polmone, cuore, a volte pelle. Molte di queste parti costituiscono ancora oggi il nostro classico fritto misto. La carne era accompagnata da salse, a base di erbe, spezie, aceto, vino, agrumi. Mentre per i ricchi e i nobili si faceva nelle salse largo uso di spezie (molto costose, vero “status simbol” dell’epoca) le salse contadine erano a base di erbe coltivate nell’orto come il nostro bagnetto verde, ma senza olio. Grande importanza ebbero i cereali, mentre per tutto il Medioevo il riso rimase un costoso prodotto d’importazione e si iniziò a coltivarlo nell’Italia settentrionale verso la fine dell’epoca. I pasti principali dei contadini consistevano in fette di pane su cui venivano serviti densi pastoni granulosi, ottenuti lasciando bollire per ore, acqua, cereali poveri e verdure. Queste zuppe ricordano sicuramente la panada piatto tipico della cucina della “nonna”. Quando il grano scarseggiava i cereali erano sostituiti da elementi meno pregiati come castagne, legumi secchi (l’unico fagiolo conosciuto all’epoca era quello dell’occhio), ghiande, semi di felce. Quello che non abbiamo sicuramente ereditato dalla gastronomia medioevale è l’abitudine a mescolare i sapori agro/dolce/piccante. E’ difficile replicare la cucina medioevale perché noi oggi siamo abituati ad altri saperi e ad altri sapori. Nessuno può dire che il pane, la carne, gli ortaggi hanno lo stesso gusto che avevano allora. Altra chimica dei terreni, altre tecniche di allevamento, altre al lavorazioni e altra fame .

In questo scorcio di XXI secolo, è diventata molto salda in tutto il mondo l’alleanza fra nutrizionisti e storici della gastronomia. La giustificazione è nella obesità dilagante con uno su tre adolescenti affetti da questa vera e propria malattia e, secondo le ultime ricerche, alla base di diverse neoplasie. Gli storici dell’alimentazione e della gastronomia sono coscienti di questo stato di cose? E quali sono le loro indicazioni?
Il sovrappeso e l'obesità costituiscono oggigiorno uno dei più gravi problemi di salute. Secondo un sondaggio del NHS, il sistema sanitario nazionale del Regno Unito, più di un terzo delle persone tra i 60 e i 70 anni sono obese, mentre il 22% dei bambini è sovrappeso e a rischio obesità. L'ISTAT posiziona l'Italia ai primi posti in Europa per il numero di soggetti a rischio. Una soluzione al problema sembra provenire dalla gastronomia molecolare. I ricercatori dell'Università di Birmingham sono giunti alla composizione di un gel edibile che è risultato essere più difficile da digerire e meno facilmente scomponibile dagli acidi dello stomaco. In questo modo, la persona avvertirà con meno frequenza gli stimoli della fame. Gli studiosi stanno ora cercando di incorporare il suddetto gel negli alimenti, così da aiutare i pazienti ad avvertire quella sensazione di pienezza che attenuerà il loro costante desiderio di cibo. Gli ingredienti utilizzati per la composizione di questa sostanza sono l'alga, l'amido e la buccia degli agrumi, spesso impiegati dagli chef nella cucina molecolare. Un altro approccio al problema è dato dalla gastronomia metabolica. Il suo obiettivo è quello di salvaguardare la salute a lungo termine con il risparmio mirato di grassi e calorie inutili, senza penalizzare l’appetibilità delle pietanze. La gastronomia metabolica, frutto delle ricerche del Prof. Nazario Malchionda dell’Ospedale Sant’Orsola Malpighi di Bologna e autore del volume “Le diete fanno ingrassare”,  dà grande importanza alle verdure che, con la frutta, devono occupare uno spazio primario nell’alimentazione e non essere considerate un semplice contorno come avviene con la Gastronomia tradizionale. Le verdure dovrebbero essere usate per dare sapore agli ingredienti principali di un piatto e un senso di sazietà meccanico (es. orecchiette con i broccoli). Si raccomanda inoltre l’uso delle spezie (un ritorno al Medioevo) per migliorare l’appetibilità delle preparazioni e indurre il senso di sazietà e (una piccola curiosità) di ingredienti alcolici (l’alcool evapora durante la cottura) ma gli alimenti rimangono impregnati dei profumi di vino e cognac e quindi risultano molto appetitosi.

In tutte le sue declinazioni il riso è l’alimento principe delle nostre zone, il Vercellese in particolare. Con i piatti che vengono dal XV Secolo, la panissa in primo luogo, il riso reggerà al ciclo post moderno già iniziato o, alla fine, il riso sarà del tutto accantonato?
L’Accademia Italiana della Cucina, a cui mi onoro di appartenere, ha scelto come tema della Cena Ecumenica del 2014 “Il riso “. Tutte le Delegazioni, in tutto il mondo, il 16 ottobre hanno consumato una cena in cui sono stati serviti piatti a base di riso. La cucina del riso è stato il tema che il Centro Studi “Franco Marenghi” ha svolto nel corso del 2014. Purtroppo questi eventi non coincidono con buone notizie sul fronte della produzione nazionale del prodotto. Il grosso della produzione è in Oriente e l’importazione da Paesi quali la Cambogia e la Birmania ha subito   incrementi notevolissimi, con conseguente chiusura di aziende italiane. Inoltre c’è il problema gravissimo della mancanza dell’obbligo di scrivere in etichetta la provenienza del riso e la varietà del prodotto. Questo è ancora più grave se si tiene conto che oggi c’è un enorme consumo di risi in busta, già preparati e pronti al consumo dove l’etichetta riporta solo: riso parboiled. Si sta perdendo la specificità dei nostri risi per la preparazione dei piatti tradizionali. Tuttavia il riso non sparirà dalle nostre mense. Secondo la FAO nel 2050, ci saranno 2,5 miliardi di persone in più sulla terra: come sarà possibile nutrirle? Gli scienziati cercano nuovi alimenti e, oltre ad aver proposto le alghe, la carne artificiale, gli insetti, dopo anni di studi e di ricerche con Istituti cinesi e delle filippine, si è cominciato a coltivare un “super riso verde”: una serie di varietà di riso che non solo produce più chicchi, ma è più resistente alla siccità, alle inondazioni, all’acqua salata, agli insetti, e alle malattie pur non essendo geneticamente modificato. Insomma anche ai vercellesi del 2050 un bel piatto di panissa è assicurato.